Classifiche a pagamento: l’indignazione a buon mercato non cambia nulla
Il giorno dopo il pandemonio scatenato da Selvaggia Lucarelli sulle famigerate guide a pagamento di Forbes e Il Forchettiere, l’indignazione piove copiosa. Giornalistə (eh sì, con la schwa: così rimane il dubbio sul sesso e l’inclusività è salva) si affrettano a mostrarsi su Instagram in pugnace protesta, col petto gonfio di virtù. Denunciano la gravità dell’accaduto e proclamano l’avvio di una battaglia per la credibilità e l’onore della loro sempre più gloriosa categoria. Ma c’è un piccolo problema.
Il problema, naturalmente, è che a Forbes e a Il Forchettiere non fotte niente nessuno. Come già detto ieri, criticare una simile “concorrenza” è come andare a una gara di tiro al piccione con un mitra: nessuno si lamenterà. Dove sta la questione diventa spinosa? Quando ci si guarda un po’ più vicino, scopriamo così che anche gli amici di sempre, i nostri compagni di merende, sono maestri in pratiche commerciali che definire ‘poco trasparenti’ è, francamente, riduttivo. Attaccare Forbes è facile, certo, ma riconoscere che la stessa testata con cui domani farò il mio bell’evento sul vino sia anche uno sponsor di classifiche e bollini a pagamento? Eh no, qui partono i distinguo. Perché la coscienza va bene, ma gli eventi non si fanno mica da soli all’interno del Grande Raccordo Anulare.
Sarà dunque questo il nostro Zeitgeist, direbbero i più colti, o “spirito del tempo”: il giornalismo enogastronomico, ridotto ormai a una danza incessante di premi e bollini, si abbandona a una corsa forsennata per assegnare targhe e garantire medaglie, rinunciando ad ogni analisi o approfondimento. Meglio la comfort zone del “vincitore del mese” o del bollino sulla crema di nocciole: tutto fa brodo, e qualcuno, alla fine, dovrà pur pagare il conto. I veri protagonisti? I produttori stessi, spremuti fino all’ultimo euro da chi, in cambio di una menzione, promette una visibilità che, diciamolo, sta diventando sempre più immaginaria.
Lo spirito del tempo ha condannato il giornalismo enogastronomico ad essere un mero ente di classificazione più che di analisi e approfondimento, un’entità più impegnata a distribuire pagelle che a dare notizie e fornire un racconto rilevante per il pubblico. In tutto questo, a suscitare una risata amara è la testa online Dissapore: prima, giustamente, pubblica il “lancio di agenzia” su quanto raccontato da Selvaggia Lucarelli, poi l’annuncio dell’imminente Classifica del Panettone di Dissapore 2024. “Che nessuno paghi o abbia mai pagato per essere inserito in classifica non dovremmo specificarlo — scrive il direttore editoriale Chiara Cavalleris — ma le cronache recenti ci costringono a farlo. Siamo e restiamo totalmente indipendenti: i nomi dei vincitori li scopriamo dopo il panel test, incrociando codici e nomi, grandi o piccole firme, e ne prendiamo atto trascrivendo risultati e commenti, che poi condividiamo con i lettori”.
Ora, con il pubblico italiano in agitazione per la nuova classifica del panettone — speriamo solo che esca a borse chiuse, così da non turbare l’andamento dei mercati — vale la pena ricordare una verità tanto semplice quanto ignorata: le classifiche non servono a chi vi compare, non hanno alcuna rilevanza giornalistica (o ‘notiziabilità’, tanto per usare una parola grossa) e sono utili solo alle agenzie di PR e a chi le fa, per andare poi a battere cassa dagli sponsor. Dissapore, ovviamente, ringrazia sentitamente i fedeli sponsor: un molino, un produttore di caffè e, perché no, una ditta che misura la qualità dell’aria. Il tutto sempre per amore del panettone, s’intende. Anche le agenzie di comunicazione sembrano apprezzare la trovata, impegnate a piazzare ogni cliente in ogni classifica possibile.
Alla fine, che altro possiamo dire? Forse siamo noi, il pubblico, che ormai ci accontentiamo di queste classifiche infinite, di bollini che piovono a cascata e titoli che non significano più nulla. È una danza ciclica che pare non fermarsi mai: i premi, le classifiche, le griglie di valutazione riempiono gli spazi editoriali. E noi, intanto, ci chiediamo se ci sia ancora qualcosa che valga la pena leggere, o se ormai tutto si possa riassumere con un bollino dorato sulla confezione.