Cannavacciuolo: chef, lavapiatti e il mito stanco del sacrificio

Italian Wine Drunkposting
4 min read1 day ago

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Cannavacciuolo è intervenuto al podcast di Tommaso Mazzanti e Jo Bastianich

Il mito del sacrificio nel lavoro di ristorazione ha perso qualsiasi senso, ammesso che ne abbia mai avuto. Eppure, continua a essere riproposto come un mantra, spesso da figure di spicco del settore che, paradossalmente, non ne avrebbero nemmeno bisogno. Antonino Cannavacciuolo, ad esempio, nella sua recente intervista al podcast Millions di Tommaso Mazzanti e Joe Bastianich, è tornato a cavalcare questa narrativa, quasi fosse una medaglia al valore. Cinque anni senza un giorno di riposo, turni interminabili, mani immerse nel lavello per dare una mano al lavapiatti in difficoltà. Una storia di resilienza, certo, ma che nel 2025 risuona come una vecchia melodia ormai fuori tempo. Perché?

La retorica del sacrificio totale poteva forse avere senso in un’altra epoca, quando il lavoro era romanticizzato come l’unica strada per affermarsi, soprattutto in settori tradizionalmente duri come la ristorazione. Oggi, però, questa narrativa non è solo anacronistica, ma rischia di essere profondamente dannosa. Il settore vive una crisi di vocazioni senza precedenti e le cause sono sempre le stesse: condizioni di lavoro insostenibili, aspettative sproporzionate, assenza di equilibrio tra vita privata e professionale. Continuare a glorificare storie di sacrifici estremi non serve a nulla. Non solo perché i lavoratori non si riconoscono più in questi modelli, ma anche perché perpetua una cultura tossica che normalizza l’impossibile in nome del successo. E se quel successo non arriva? Ovviamente, la colpa è solo tua.

La realtà dietro i racconti epici spesso non corrisponde alla narrazione. Nel 2012, quando Cannavacciuolo afferma di essere ancora costretto a lavare i piatti per mancanza di risorse, Villa Crespi era già una realtà consolidata: due stelle Michelin, inclusione nel prestigioso circuito Relais & Châteaux e uno chef ormai proiettato verso una brillante carriera televisiva con Cucine da incubo. Sorge dunque un dubbio: davvero non c’erano risorse sufficienti per assumere un secondo lavapiatti? O forse, più semplicemente, è l’ennesimo aneddoto costruito ad arte per alimentare una retorica da podcast ormai superata? Questo tipo di narrazione rischia di coprire problemi strutturali con una patina di eroismo. Certo, un imprenditore è libero di fare sacrifici personali per far crescere la propria attività, ma quando questa filosofia si riflette sulle condizioni di lavoro dei dipendenti, il discorso cambia radicalmente.

La crisi del lavoro nella ristorazione non si riduce alla mancanza di manodopera: è una crisi di sistema. Turnover altissimo, orari insostenibili, stipendi che raramente rispecchiano le competenze richieste. Il settore è pieno di annunci di lavoro, ma molte posizioni restano vacanti per una ragione chiara: nessuno è più disposto ad accettare condizioni di lavoro improponibili. Non si tratta, come spesso si sente dire, di “giovani che non hanno voglia di lavorare”, ma di una generazione che ha compreso una verità fondamentale: il lavoro non può essere l’unico scopo della vita, e di certo non può esserlo a qualunque prezzo.

Scorrendo gli annunci di lavoro pubblicati da Cannavacciuolo Consulting su Indeed, salta all’occhio un dettaglio interessante: ai nuovi assunti vengono offerte dieci sessioni di supporto psicologico. La salute mentale è un tema cruciale, ma sorge una domanda inevitabile: se l’ambiente di lavoro porta i dipendenti ad aver bisogno di terapia, non sarà che il problema risiede proprio nelle condizioni in cui operano? Offrire sessioni di coaching è sicuramente un passo avanti, ma da solo non basta. Rischia di essere una semplice toppa, una misura temporanea che, senza un miglioramento reale delle condizioni lavorative, diventa un’ammissione implicita della tossicità del contesto. La vera innovazione consisterebbe nel creare un sistema di lavoro che non costringa i dipendenti a fare affidamento sul supporto psicologico solo per affrontare la quotidianità.

Il caso di Villa Crespi, con i suoi frequenti annunci di ricerca di personale, è un esempio lampante di una problematica più ampia. Strutture di alto livello, che sulla carta dovrebbero attrarre i migliori talenti, si trovano invece in difficoltà nel trattenere i dipendenti. E le ragioni sono tutt’altro che misteriose: orari insostenibili, scarsa considerazione per il tempo libero, aspettative fuori misura. Quando una struttura si ritrova a gennaio senza una squadra pronta per affrontare la stagione, non è questione di sfortuna. È il sintomo evidente di un modello gestionale che semplicemente non regge.

Alla domanda di Bastianich: “Come si arriva a essere un artista e un imprenditore di successo?”, Cannavacciuolo risponde: “È raro, ma molto semplice: la mia azienda non vuole diventare una multinazionale, ma mantenere una base familiare. Voglio prendermi cura dei ragazzi che lavorano con noi, trattarli come proprietari. Solo loro possono aiutarti a crescere, io ho bisogno di loro, solo loro possono darti la vita”. Parole che, a dirla tutta, ricordano fin troppo quel cliché dell’amministratore delegato che insiste nel dire che l’azienda deve essere come una famiglia. E sappiamo bene cosa significa: quando qualcuno deve sottolinearlo, è probabile che nei fatti non abbia alcuna intenzione di dimostrarlo.

Il successo, però, non può essere misurato solo con le stelle Michelin o i premi ricevuti. Dovrebbe riflettersi anche nella capacità di creare un ambiente di lavoro dignitoso e sostenibile per tutti, dai lavapiatti ai sommelier. Questo richiede una rivoluzione culturale e cambiamenti concreti: orari più umani, contratti stabili, benefit significativi e, soprattutto, un approccio diverso nel valorizzare chi lavora.

All’alba del 2025, il mito del sacrificio come requisito per il successo deve essere messo da parte. Non c’è nulla di eroico nel consumarsi per il lavoro, e continuare a promuovere queste storie come esempi da seguire è solo un segno di miopia. La vera sfida, quella che il settore deve affrontare, è costruire un’industria che rispetti le persone tanto quanto i piatti che serve. E questa, sì, sarebbe una rivoluzione degna di essere raccontata.

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